Recentemente, in virtù di un capitolo della mia tesi di laurea in storia medievale, ho partecipato a Bright-Night 2025, iniziativa dell’Università di Siena che, tra le altre cose, ha proposto come tema il “PrenderSi cura del patrimonio culturale immateriale”, le rievocazioni storiche quali componenti dell’identità collettiva. La Giostra del Saracino è stata ovviamente protagonista. In quella sede ho fatto un intervento che qui, ringraziando dell’ospitalità, “giornalizzo” il più possibile, mantenendo il titolo e ricorrendo, per correttezza di metodo, ad alcune note.

Sono partito dalla seguente riflessione: questo patrimonio immateriale può esistere da solo o ha bisogno di qualcosa di fisico, di materiale, in cui svilupparsi, manifestarsi? Come una piazza, tanto per intendersi, con palazzi ai lati, pavimentazione, mattonati tangibili, calpestabili. Sarebbe la stessa cosa se il Saracino si corresse al Prato? Non sgranate gli occhi, perché è successo e proprio per l’antecedente prossimo alle giostre dell’epoca moderna: 1904, celebrazioni del settecentenario della nascita di Francesco Petrarca. Dunque: la Giostra al Prato o la Giostra in piazza? Credo non ci siano dubbi che l’immaterialità culturale si “materializzi” meglio nella seconda. Domandiamoci perché.
Perché il Saracino è la terza gamba di un’operazione ampia, articolata e ideologica che coinvolge architettura, retorica e, appunto, folklore. Il tutto all’insegna del Medioevo, visto come età dell’oro, il periodo in cui Arezzo diventa una “piccola patria”, libera, indipendente e, almeno così si dà per scontato, potente. È un fenomeno diffuso: il Medioevo che rischia di venire oscurato dai miti del fascismo ufficiale, Roma e l’impero, nelle città tiene botta, mostrando capacità – per usare un termine in voga – di resilienza e dando vita a corposi fenomeni di revival.
Non possiamo non partire dalla prima gamba, l’architettura: negli stessi anni in cui rinasce la Giostra, l’ingegner Umberto Tavanti e l’architetto Giuseppe Castellucci sotto l’egida del Re Sole, il podestà Pier Ludovico Occhini, restaurano la città. Come? Reinventandola nei luoghi, nei profili, nello skyline. Piazza Grande compresa. Anzi, soprattutto piazza Grande. Diventata severa e turrita, il luogo adatto per permettere anche alla piccola patria aretina, emulatrice di altri esempi sparsi per l’Italia e la Toscana, di riesumare – termine macabro direi, visto che in genere viene riferito alle salme dal cimitero – un gioco virile e non scevro di pericolo e di difficoltà e risvegliare energie sane e generose (1). Dunque: le nuove fattezze di piazza Grande si rivelano perfette per spettacolarizzare il Saracino, il Saracino si rivela perfetto per esaltare la ritrovata architettura della piazza, in una compiuta reciprocità tra materiale e immateriale (2).
Ho usato il concetto di “reinvenzione” per i restauri compiuti ad Arezzo in un arco di tempo almeno decennale fino al 1936/37. Significa che la parte medievale di piazza Grande è pittoresca, forzata, prossima alla falsità? Sembra incredibile a dirsi, ma sì. O meglio: usando le parole di Occhini la pretesa non è rifarla su modelli medievali, ma ritrovare il suo volto medievale, curando ogni dettaglio per togliere dal bizzarro e caratteristico insieme ogni nota stridente (3).
Pare una sottigliezza e magari lo è ma se la leggiamo con lenti dell’epoca ci accorgiamo che a ispirare e guidare è il tentativo di recuperare qualcosa non per com’era ma per come avrebbe potuto essere, sanando, medicando, alla stregua di un chirurgo – termine non casuale dato che Castellucci viene definito mago della chirurgia architettonica (4) – quel preciso spazio, quel dato edificio, visti come un corpo malato (5) e attaccato dai batteri, nello specifico gli intonaci, che Occhini odia più di ogni cosa. Arezzo recupera, tramite la piazza, il “volto medievale” citato dal podestà. Stereotipato, contraffatto – quando mai Arezzo è stata così? – eppure spendibile, in letteratura si direbbe “verosimile”: Arezzo, più o meno, potrebbe essere stata anche così. Un volto, va detto, a merito di Tavanti e Castellucci e delle maestranze artigiane mai sufficientemente citate che lavorano in quei cantieri, riuscito.
In piazza sorgono due, quasi tre considerando quella vicina di Borgunto, famose torri, Faggiolana e di palazzo Lappoli. A merlatura piana. Che significa? Per me piana, stop. Come a coda di rondine non vuol dire “ghibellino”, vuol dire a coda di rondine. Eppure, nell’immaginario, “piano” equivale a “guelfo”. Possiamo o no pensare che i merli siano in un modo o in un altro solo per ragioni funzionali, militari sostanzialmente, scevri per lo meno quando nascono da qualsiasi richiamo “politico”? Peraltro, nella delibera per la torre di Borgunto, Occhini ribadisce tre volte merlatura ghibellina (6). Il Castellucci, perché a lui è assegnato l’incarico, o è in vena di scherzi o la pensa a modo suo. Pure la torre di Uguccione della Faggiola non torna: se è stato un capo ghibellino e gli interventi procedono metodologicamente, come detto sopra, non dal com’era ma dal come avrebbe potuto essere, perché i merli sono piani? E ancora: porta san Lorentino. In due illustrazioni dei prospetti post-restauro, oggi si definirebbero rendering, ai merli piani si accompagna una didascalia che conferma: le mura riavranno l’antica merlatura guelfa (7). Va diversamente e oggi possiamo ammirarla a coda di rondine e quindi, sempre per l’immaginario, ghibellina.
Questo permette d’introdurre il tema della confusione e della banalizzazione che caratterizza la semplicistica propaganda di regime sul Medioevo. E siamo alla seconda gamba: la retorica, scivolati già sull’immateriale. Un personaggio si distingue, Cesare Verani, prima squadrista poi fascista senza se e senza ma. A un certo punto, forte anche dei legami che riusce a tessere con Occhini, diventa l’intellettuale di riferimento della città, mettendo bocca su tutto con un diluvio pazzesco di articoli su “Giovinezza”, settimanale della federazione provinciale del fascio. Uno che parla di santità dei cazzotti (8) e di modestia paravento degli imbecilli (9). Capito l’antifona?
In un botta e risposta con Tavanti del 1931 – anche se non firma il pezzo io scommetterei l’intero mio patrimonio che è lui – lamenta che per i merli della torre di palazzo comunale in fase di realizzazione resta ancora senza risposta la domanda: merli guelfi o merli ghibellini?. Dopo di che cala il jolly: quella che ci daremmo noi medesimi – la risposta – suona decisamente in favore dei merli ghibellini perché nonostante tutte le obbiezioni, in mancanza di sicure testimonianze tratte dai documenti o da riproduzioni figurate, è opportuno che la Torre Civica affermi, oggi, con la sua corona merlata, la parte politica predominante all’epoca comunale e, soprattutto, nel periodo di potenza della signoria del vescovo Guidone (10). Insomma, la ricostruzione storica non muove dal rigore scientifico, per il quale sembrerebbe valere una sorta di “me ne frego”, ma da arrangiamenti di convenienza.
Ed ecco quindi il Medioevo: guelfi, ghibellini, battaglie, crociate, dispute familiari, tornei e, appunto, giostre. Tipo un minestrone dove si butta dentro qualunque avanzo. Per alimentare un orgoglio civico, la presunta gloria della piccola patria locale, l’impronta di fierezza austera della città repubblicana e tarlatesca (11). Guido Tarlati: il più grande reggitore del nostro libero Comune, da Lui ricondotto a potenza e splendore… violento fra i violenti, fiero pur di fronte ai Pontefici, dominato sempre dal pensiero fondamentale di dar potenza alla sua Terra (12). Quando sulla Piazza si svolge il – suo – rito funebre… si tratta del funerale della grandezza aretina (13).
Altro esempio: La storia d’Italia più bella, il medioevo che fece le città fiere e superbe della conquistata libertà dall’Alemanno – che c’entra Arezzo con i tedeschi, Pontida o Legnano? – e le rese fiorenti di ricchezza e di marmi e pietre istoriate, è assai più facile impararla nelle città che vanno per la minore, ma che hanno serbato più intatto il loro carattere della primitiva indipendenza e fierezza. Ma forse nessuna, come la nostra Arezzo, ha conservato questo carattere e questa impronta. Tra la Pieve e il Duomo, siamo ancora in pieno medio evo… vi parrà ancora di udire nei consessi delle due parti, riunite ciascuna nel suo bel tempio, le voci concitate di quei nostri avi, troppo spesso in lotta fra loro, ma anche più spesso irrompenti contro le velleità dei prepotenti vicini (14).
A un certo punto di torri aretine ne sono vaneggiate cento, da fare risorgere con i loro merli, rielevandole, ammassandole. Altro che San Gimignano, vista sempre come modello, perfino un po’ ossessionati. Sarebbe un lavoro immane. Così al fascismo aretino tocca accontentarsi di… sei (15). Purché… nostrali. Come i polli. Una via aretina alle torri dentro al Medioevo, con caratteri esclusivi e irrintracciabili, che fa toccare la vetta dell’autocompiacimento localistico: siamo lontani dalle eleganze fiorentine o senesi, ma anche dalle rudi architetture di altre terre toscane. La «Torre di Uguccione» non è per certo la «Torre del Mangia»… né quella di Arnolfo, ma neppure è una delle torri… che fan la bellezza di S. Gimignano… Né quella di Uguccione, né quella vicina dei Lappoli… né le altre sparse per i nostri rioni di tipo sempre pressoché identico, erette per lo più sulla destra dell’edificio, con la disposizione e il taglio singolare delle loro finestre, col rivestimento a bozze piccole e rilevate o a «filaretto» han caratteri comuni con costruzioni coeve di terre vicine: son torri «aretine» e null’altro; e questo è il loro pregio (16).
Proseguendo: nel consesso delle antiche Città comunali ecco dunque Arezzo che riprende il suo rango onorato!. Facendo rivivere la storia medievale fatta di episodi gloriosi, di tradimenti infami e di atroci vendette. La chiosa è un capolavoro. Arezzo sta riaffermandosi nella sua fisionomia medioevale che è tipica per un suo accento di rude bellezza, di semplicità severa, aliena da sorrisi festevoli di Rinascenza, da fioriture ogivali di marmi e di trine e da ritmi pittorici… Nei Rioni più integri nella loro veste di passato si respira l’atmosfera più pura del medioevo comunale fatta di energia e di fierezza. E il Rinascimento non ha osato violare la cinta mistica col suo sorriso e à posato un serto di rose conviviali sulla fronte del colle di S. Maria (17). Qual è la città rinascimentale per eccellenza? Oltre a Mantova, Urbino e Ferrara ben s’intende. Firenze.
Se questo è stato il clima, come ha potuto un manoscritto del 1678 ispirare la riesumazione? Mi riferisco all’opuscolo stampato sulle feste svoltesi ad Arezzo l’anno prima nell’ambito dell’accademia degli oscuri (18). Tale consesso organizza una dieci giorni di eventi tra novembre e dicembre 1677 durante i quali si mangia e brinda, si ascolta musica, recitazione poetica, una commedia e una disquisizione sulle qualità della donna, si ammira un corteo a cavallo e a margine, finalmente, il 6 dicembre, corrispondente a san Niccolò patrono dell’accademia, una “giostra di buratto” adeguatamente disciplinata. La storia è nota: su questo opuscolo mette le mani “casualmente”, mentre sta cercando una ricetta, Alfredo Bennati, redattore della cronaca locale de “La Nazione” che poi rende “pubblico” all’inizio del ’31. Al di là della simpatia che può suscitare la storia, tra codice da Vinci e calendario di frate indovino, di un uomo che mentre ambisce alla preparazione di un dolce, magari della nonna, rinviene tra scaffali polverosi un ampio documento del Seicento, conosciuto di sicuro dal Gamurrini che ne accenna in una conferenza a Roma nel 1918, tale episodio è da filtrare alla luce del propizio clima culturale e rionale instauratosi a cui manca, giustappunto, un ultimo tassello, un antecedente. E in questo documento del Seicento l’antecedente è servito sul coscio.
Senza il finale, “giostra di buratto” con tanto di disfida cantata in spaventoso tuono da un simulacro, Bennati, Verani, Occhini e compagnia di quel barocco estenuante non saprebbero che farsene. Vi rendete conto cosa sono quei versi scimmiottanti lo stile di Giovan Battista Marino? Esercizi allusivi, rileccati ed eruditi a uso e consumo di cerchie ristrette d’intenditori. Caratteristiche che ritroviamo fin dal frontespizio: cos’è l’autore dell’opuscolo se non una figura allegorica? Magari all’epoca chiunque ne legga lo pseudonimo identifica subito una persona in carne e ossa, ma possiamo ritenere esclusivamente reale chi si firma: Accademico Discorde detto il Sempre Innocente? Le pagine sono in un italiano faticoso che non è ovviamente il nostro ma, una volta presa confidenza con la lettera S che pare una F o fatta l’abitudine alla U che si legge V, risultano linguisticamente comprensibili. Dal punto di vista contenutistico restano invece indigeribili. Oggi, dopo trecentocinquanta anni, se per arrivare a esprimere un concetto passassimo per la tangente degli infiniti rimandi a dei, semi-dei e miti dell’antica Grecia si aprirebbero le porte della psichiatria.
E poi il Seicento… il secolo più sfigato, corrotto, a sentir Manzoni perfino pestilenziale, umiliante per l’Italia e per Arezzo. La prima dominata dagli spagnoli, la seconda dai fiorentini. Però di quel finale, dettagliato e attendibile, una “giostra di buratto” ben regolamentata, non si può proprio fare a meno. Purché il tutto sia riadattato: via l’atmosfera imbellettata, sfarzosa, incipriata, direi poco mascolina, di questi accademici oscuri e sotto con la virilità dell’epoca d’oro. Viene dribblato il fatto che l’unica prova disponibile, negli anni Trenta, risalga a un periodo cerimonioso, per permettere al Saracino moderno di diventare la discendenza legittima della schietta fierezza della razza aretina che in cento cavalcate di guerra non ha mai tralignato! (19).
Qualcuno si esalta, a partire dall’origine della giostra ricondotta alle crociate (20). Poi, in forma più generica, al sorgere delle istituzioni cavalleresche (21). Successivamente rientrano in gioco i valorosi crociati d’Arezzo (22). Prendo quest’ultimo inciso come emblema della banalizzazione storiografica: l’epopea delle Crociate è il XII secolo. Nei comuni ci sono i consoli. Ma il fascismo sceglie “podestà” per qualificare il vertice delle amministrazioni locali, quindi reputa più prestigioso il loro secolo, il XIII. Poi c’è il progetto di Occhini dei costumi dei valletti – che si vogliono trecenteschi e non a rigor di logica duecenteschi – del… podestà. Tra parentesi, quegli abiti, sono serio quando parlo di mascolinità, non possono essere indossati dai dipendenti comunali individui speciali soggetti del resto a quelle vicende naturali della vita che tolgono le possibilità estetiche di un abbigliamento del genere (23). Probabilmente l’età media del personale è parecchio alta e dei vecchi bacucchi non sono considerati adeguati a dare prova di valletti vigorosi. Caro Occhini, s’invecchia tutti, purtroppo.
Dopo di che Guidone Tarlati reclama ancora gloria e dunque perché non legare Saracino e signorie tarlatesche nelle loro massime espressioni? Ecco allora scomodato il XIV secolo. Lo vedete come si fa presto a dire: Medioevo? Crociate, podestà, Tarlati sono frutti di momenti diversi: in epoca podestarile possiamo collocare le crociate a partire, al massimo, dalla quinta.Tra il 1217 e il 1221, quella in cui Francesco d’Assisi prova perfino a convertire il sultano al-Malik. Durante la sesta l’iniziativa passa a due persone di qualità superiore: Federico II e il solito al-Malik che si mettono d’accordo per rendere Gerusalemme “città libera”. Cavalieri cristiani e musulmani non si lanciano gli uni contro gli altri. Infine, è la nona a essere considerata storicamente l’ultima e si consuma nei primi anni Settanta del XIII secolo quando Guido Tarlati, giusto per limitarsi a lui, è in fasce.
Sulla manifestazione in sé, Verani nel commentare il primo Saracino parla di venti lance della quintana (24), perché gli sfidanti sono stati cinque, per quattro carriere cadauno; quando arriva il momento di riconfigurare – con gl’immancabili arrangiamenti (25) – e rimedievalizzare i tanti rioni che sorgono e crescono negli anni Venti appaiono addirittura i sestieri (26). Pensate ad Arezzo divisa in una mezza dozzina di zone e di conseguenza a una Giostra a sei.
Tuttavia, la conclusione non può essere riservata se non allo spunto, anzi alla punta d’ariete, che contribuisce maggiormente alla medievalizzazione della festa seicentesca: il XXII canto dell’Inferno, dove Dante afferma di avere visto in terra aretina gir gualdane, fedir torneamenti e correr giostra, in pratica scorribande a cavallo, simulazioni di battaglie squadra contro squadra e “giostre”.
In merito ai tornei, è plausibile pensare che ad Arezzo se ne svolgano. Uno sarebbe attestato – ma in una copia di documento e questo suscita incertezza – da Ubaldo Pasqui: 9 maggio 1260, in piazza Grande, investitura a cavaliere di Ildebrandino Giratasca (27), con tanto di torneamentum, non una scaramuccia fra dilettanti ma terribilis tamquam vera guerra (28). Qualcuno si fa anche male.
Le giostre: vista l’ampia diffusione, è altrettanto probabile che ad Arezzo se ne corrano e perché no “al saracino”. Come a Firenze in un’occasione però poco edificante: nel 1384 per celebrare la sottomissione di… Arezzo. Non esistendo per la nostra città fonti medievali, non resta che ipotizzare la sussistenza, ad andamento sinusoidale attraverso i secoli, di spettacoli giostreschi di vario tipo, forme d’esibizione con le quali viene procrastinato il ricordo di una tradizione.
Vengo a Dante: nel Medioevo si svolgono le giostre “per dispetto”. Cerimonie in cui si assoldano prostitute e manigoldi di ogni risma e si fanno trotterellare, fingendo sfide, in groppa ad asini sotto una città assediata che vede al danno aggiungersi la beffa. Se Dante combatte a Campaldino – peraltro Verani scrive quale cavaliere delle schiere dei Feditori di Corso Donati (29) e dunque nella riserva guelfa e non in prima linea come altri indizi lascerebbero supporre, per esempio una lettera del sommo poeta, perduta ma tradotta a tempo debito da Leonardo Bruni, purtroppo una fonte indiretta a conferma di come il passato vada maneggiato con cura – potrebbe aver raggiunto Arezzo con l’oste guelfa e assistito a queste messinscene o magari al palio, serio, riportato da un Verani meno assertivo del solito: se anche vogliamo pensare che, nel canto XXII dell’Inferno, «giostra» sia usata nel senso di gioco cavalleresco, rimane dubbio se Dante abbia voluto alludere alle «giostre» degli Aretini o a quelle disputate dai suoi concittadini nel giorno di S. Giovanni sotto le mura di Arezzo.
Tuttavia: Nell’incertezza… ritengo che un documento più convincente della naturale e secolare inclinazione degli Aretini verso i giochi cavallereschi sia dato dal bassorilievo murato sopra una porta di Palazzo Pretorio e raffigurante un cavaliere tutto coperto di armatura e maglia che, a scudo imbracciato e lancia in resta, corre a gran galoppo su un destriero ingualdrappato pel torneo. Tale scultura… fu dal 1250 circa ai primi del ’300, l’impresa araldica della Città (30).
Peccato che quella figura scolpita immortali solo un cavaliere della famiglia Albergotti e mai sia adottata come stemma civico (31).
Marco Caneschi
1 Verani C., La Giostra del Saracino in Arezzo, in “Lares. Bullettino della società di etnografia italiana”, IV, 1933, pp. 46-54: p. 54.
2 Lasansky D.M., The Renaissance perfected: Architecture, Spectacles, and Tourism in Fascist Italy, Pennsylvania, Pennsylvania University press, 2004, p. 330.
3 Occhini P.L., Recenti restauri aretini, in “Atti e memorie della Reale accademia Petrarca di lettere, arti e scienze”, XXVIII-XXIX, 1940, pp. 301-312: p. 307.
4 Dallo scrittore Giovanni Papini, come riporta Centauro G.A., L’evoluzione moderna della città di Arezzo tra reale e virtuale. Excursus tra piani urbanistici e progetti realizzati e non per orientarsi nella città futura, in Arezzo fra passato e futuro. Un’identità nelle trasformazioni urbane, a cura di Studio la piramide, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1993, pp. 15-40: p. 34.
5 Centauro G.A., 1900-2000 Architettura e città in movimento. La rivoluzione aretina del restauro, in Arte in terra d’Arezzo il Novecento, a cura di L. Fornasari, G. Uzzani, Firenze, Edifir, 2009, pp. 23-34: p. 25.
6 Archivio storico del comune di Arezzo, Deliberazioni del podestà, anno 1935, vol. 1, n. 60.
7 L’artistica sistemazione della Porta San Lorentino, articolo non firmato, “La Nazione Cronaca di Arezzo”, 16 luglio 1932, p. 4.
8 Verani C., Santi cazzotti…., “Giovinezza”, 25 agosto 1928, p. 1.
9 Verani C., Le questioni edilizie e la stampa, “Giovinezza”, 28 febbraio 1931, p. 1.
10 Restauri Aretini, articolo non firmato, “Giovinezza”, 7 marzo 1931, p. 3.
11 Bennati A., Imponente programma di opere pubbliche predisposto in Provincia per la stagione invernale, “Nazione Arezzo”, 7 ottobre 1932, p. 4.
12 Brigata aretina degli amici dei monumenti, Relazione sull’attività sociale anno 1927, Arezzo, Stabilimento tipografico Beucci, 1928, p. 32.
13 Brigata aretina degli amici dei monumenti, Relazione sull’attività sociale anno 1928, Arezzo, Stabilimento tipografico Beucci, 1929, pp. 67-68.
14 Lazzeri C., Tra torri e palazzi, “Nazione Arezzo”, 27 gennaio 1933, p. 4.
15 Le tre citate nel testo in piazza Grande e Borgunto e le altre a palazzo comunale, a casa Petrarca e la Bigazza, all’epoca Littoria, davanti alla pieve.
16 Brigata aretina degli amici dei monumenti, Relazione sull’attività sociale anno 1928, Arezzo, Stabilimento tipografico Beucci, 1929, p. 63.
17 Verani C., Arezzo rivive, “Giovinezza”, 4 ottobre 1930, p. 1.
18 Ristampa anastatica dell’edizione aretina del 1678, Feste celebrate in Arezzo l’anno MDCLXXVII, Firenze, Studio per edizioni scelte, 1987.
19 Verani C., La Giostra del Saracino in Arezzo, in “Lares. Bullettino della società di etnografia italiana”, IV, 1933, pp. 46-54: p. 48.
20 Benvenuti B., Arezzo, non più città del silenzio, “Giovinezza”, 22 ottobre 1932, p. 2.
21 Benvenuti B., “La Giostra del Saracino”, “Il Popolo d’Italia”, 6 agosto 1931, p. 5.
22 La Giostra del Saracino vinta dal quartiere di Santo Spirito, articolo non firmato, “Nazione Arezzo”, 9 agosto 1932, p. 4.
23 Brigata aretina degli amici dei monumenti, Relazione sull’attività sociale anno 1928, Arezzo, Stabilimento tipografico Beucci, 1929, p. 106.
24 Verani C., La piena riuscita della prima “Giostra del Saracino” in Piazza Grande, “Giovinezza”, 8 agosto 1931, p. 3.
25 Nell’ottobre del 1931 la questione dei rioni è risolta con la costituzione dei quartieri, gli attuali: a voler essere rigorosi, la pianta di Arezzo del XIII secolo pubblicata da Ubaldo Pasqui nel 1904 cita Porta Crucifera, Porta Burgi, vincitore della prima edizione e poi scomparso, Porta sant’Andrea, Porta Fori, che viene dunque de-latinizzato. Rimando all’opera di Berti citata nella nota precedente, p. 11.
26 Berti L., La vittoria conseguita nel 1931 dal rione di Porta Burgi nella lunga vicenda della Giostra del Saracino, Arezzo, Ares, 1996, p. 16.
27 Brigata aretina degli amici dei monumenti, Relazione sull’attività sociale anno 1928, Arezzo, Stabilimento tipografico Beucci, 1929, pp. 65-66.
28 Berti L., Giostra del Saracino e ceti dirigenti aretini fra Medio Evo ed età contemporanea, in “Atti e memorie della Accademia Petrarca di lettere, arti e scienze”, LVI, 1994, pp. 253-299: p. 256.
29 Verani C., La Giostra del Saracino chiamato in Arezzo “Buratto”, “Giovinezza”, 1° agosto 1931, p. 3.
30 Verani C., La Giostra del Saracino in Arezzo, in “Lares. Bullettino della società di etnografia italiana”, IV, 1933, pp. 46-54: p. 51.
31 Berti L., Giostra del Saracino e ceti dirigenti aretini fra Medio Evo ed età contemporanea, in “Atti e memorie della Accademia Petrarca di lettere, arti e scienze”, LVI, 1994, pp. 253-299: p. 290.






