Un quartierista di Porta Crucifera nato nel 1957 potrebbe esser passato dalla culla al letto matrimoniale vedendo vincere il proprio Quartiere appena tre volte; e del 1958 direi che nulla sia riuscito a conservare nel proprio archivio mentale. Lampi, tenuti con cura tra i ricordi, riguardano invece il 4 settembre 1966, gemma solitaria in tutti gli anni Sessanta. La Giostra del 2 settembre 1973 è stata però tutta un’altra storia e qui di seguito ne racconto alcuni momenti particolari; i dati di cronaca sono facilmente reperibili altrove.

Il fatto di aver abitato sempre nel rione, nella casa dove nacqui, situata proprio di fronte a palazzetto Alberti, credo abbia contribuito nel tempo a farmi provare quel senso di appartenenza che può aversi solo in certi ambienti con particolari identità; certamente così può considerarsi Porta Crucifera, il quale «rappresenta la sintesi della vecchia Arezzo che non può morire» (Carlo Dissennati – Le mille lance del Saracino – Arezzo, 1966 – pag. 100). Dopo mezzo secolo c’è però da osservare che la giustezza di questa affermazione ha perso non poco del suo smalto, fino a dover ammettere come ormai il quartiere dimostri vitalità soltanto nei periodi di Giostra; la quale, però, assume oggi espressioni decisamente stonate e certo sconosciute negli anni di cui sto parlando.

Nel 1972 avevo indossato per la prima volta un costume: fante del Comune, ma nel Settantatré avevo ottenuto il posto da palafreniere al Capitano e come tale ricevetti l’incarico di recarmi, la mattina dell’Estrazione delle Carriere, a prendere il cavallo affittato per la cerimonia. Io e chi mi accompagnava si pensò opportuno, una volta avuto in consegna, passare per un tratto da via Trasimeno anziché da via Vittorio Veneto, più trafficata. Mal ce ne incolse, perché trovammo il passaggio a livello chiuso e al momento in cui transitò il treno il cavallo prese a imbizzarrirsi e proprio a stento riuscimmo a governarlo. Ma il bello doveva venire, e proprio alla meta, in Colcitrone. L’aria era quella solita dei dì di festa in questa specie di enclave cittadina, dalle finestre aperte fuoriuscivano i profumi della cucina domenicale, su tutti quello del “sugo”; quando giungemmo alla sede un buon gruppo di gente vi si era già radunato. Fu da qui che, alla vista del cavallo recato con noi, si levò una fragorosa risata seguita da un motto: O’ che v’han dato, un cavallo a dondolo?! E giù una risata ancor più forte, stavolta da parte di tutti gli astanti. A tutto ciò noi replicammo con indifferenza e si cominciò a strigliare l’animale per renderlo un po’ più presentabile: aveva non tanto del cavallo a dondolo quanto della miccia, povera bestia.

I giorni delle prove non corsero via proprio tranquillamente: il “Fabbricone” si trovava in profonda crisi e i suoi operai manifestavano per i loro diritti; si temette anche per una qualche protesta tale da pregiudicare il normale svolgimento del Saracino. Da Napoli giunse la notizia di un’epidemia di colera dovuta al consumo di frutti di mare contaminati; la sera delle Prove Generali s’inveì contro Santo Spirito al grido di: – Colera! Colera! –  Custode della sede, svolgevo anche dei compiti nella stalla, andavo in casa soltanto per mangiare e per dormire, un’esperienza totalizzante; eravamo e ci sentivamo orgogliosamente parte di un meccanismo, ognuno indispensabile nell’ambito del proprio ruolo più o meno rilevante. Quindi le botteghe, i fornai, i barbieri, le trattorie, gli artigiani, e poi le case, le vie, le piazzette, ma soprattutto la gente, tanta gente d’ogni età e d’ogni condizione (anche se in Colcitrone prevaleva il proletariato): un rione vivo che sapeva vivere e faceva vivere la Giostra.

Giovedì 30 agosto si propiziò la vittoria, ma non con una cena. L’uso di trovarsi attorno a un desco in un giorno di poco antecedente la Giostra, rinnovato sullo scorcio degli anni Settanta, è già documentato alla metà degli anni Cinquanta (https://www.corrergiostra.it/giostra-del-saracino/gli-albori-delle-cene-propiziatorie-i-cenoni-della-vigilia-correva-lanno-1954/). Io vi partecipai per la prima volta l’anno prima: fu una cena da Gastone al Ponte Buriano, ed ebbe come epilogo un fraterno, vicendevole lancio di farina, con persone e auto ridotte a uno stato che farebbe la sua brava figura in occasione di un’attuale festa di Halloween. In questo 1973, però, ho detto che non si trattò di una cena… ma di un pranzo: alla trattoria Tarchiani in via Colcitrone. Dirigenti e quartieristi, cinquanta o sessanta persone, menù “aretino” e grande occasione per i ragazzi come me d’imparare quelle canzoni rionali che rappresentavano il modo migliore per accentuare certi momenti salienti della vita giostresca.

Il sabato, per un atto quasi di nonnismo, fu giocoforza per me rinunciare al costume, accettando per l’indomani di poter entrare in Piazza con un lasciapassare.

In casa mia, pur non essendoci tradizioni quartieristiche degne di nota, il giorno del Saracino era considerato festivo al di là del fatto che cadesse di domenica. Usava anche invitare a pranzo qualche parente di fuori, prendendosela comoda, così che magari potesse, restando tutto il pomeriggio, conoscere il risultato: quel due di settembre non ci furono eccezioni alla consuetudine. Seppi poi che qualcuno, poco prima delle venti, con fare agitato staccò una bandiera e si mise a correre per via San Niccolò, verso Piazza pensò la mi’ mamma, che esclamò: – Io dico che s’è vinto! –.

La Giostra finì al crepuscolo, dopo l’appassionante spareggio con Santo Spirito. Tornando al quartiere, giunti su da via Mazzini in via Pescioni, mi ricordo bene che uno dei giostratori chiese di cantare Terra d’Arezzo, e così fu fatto con grande emozione di tutti; canti e suoni durarono fin verso l’una di notte e fu anche offerto molto vino. Ci s’impegnò subito per organizzare la festa, il Te Deum, se non ricordo male, si celebrò in San Francesco, fu fatta anche una cena al ristorante La Giostra.

Nei mesi seguenti, a noi ragazzi, entrando in sede, la presenza della nuova Lancia ci allietava profondamente; per un anno saremmo stati padroni di questa realtà e vedendoci regolarmente almeno una volta a settimana prevalse quella gioia che viene dallo stare insieme fra chi condivide la stessa cultura.

    Alla memoria di Guido Rossi e Ugo Morelli